Mettiamo un bell’avviso iniziale: se siete tra coloro che la mattina “non riescono a mandar giù nulla” oppure appartenete alla categoria “un espresso al bar, quando arrivo in ufficio”, chiudete pagina, selezionate il sito http://www.che.stipsi.che.hai e navigate lì sereni.
Sono un sincero democratico pluralista e rivoluzionario, ma il rezionariato ha un limite di tolleranza. Se decidete di continuare nella lettura mettete vicino al mouse un bel barattolo di citrosodina, che questo post è di difficile digestione.
Adoro il breakfast, forse non si era capito. Lo celebro con una devozione sacerdotale. È estasi, è equilibrio delle forme (tondeggianti della mia adipe), è buono, bello e giusto. Sono l’incubo di qualsiasi responsabile “food and beverage” degli alberghi dove soggiorno a sufficienza per fare danno. Posso saltare lunch o dinner e, dirò di più usando un paragone sacrilego, posso addirittura rinunciare ad una buona birra al costo di avere un breakfast come si deve. Un buon breakfast è uno sturm und drang (“tempesta e sentimento” per quelli che non volano con Lufthansa) del palato.
Le mie esperienze in questo campo sono storiche ed epocali: in un albergo di Mosca (dove son rimasto 18 mesi) cominciavo col farmi fare in padella 4 o 5 filetti di salmone, che consumavo bevendoci sopra un litro di spremute varie. Passavo poi a qualche assaggio di caviale (su 4 fette di pane imburrato), una veloce attenzione al carrello di formaggi per poi finire con una vasca da bagno di macedonia. I colleghi mi chiedevano se avessi qualche informazione riservata e stavo preparandomi a rientrare a casa a piedi, stile “Centomila Gavette di Ghiaccio”.
Altri non capivano come non avessi appetito durante la giornata, malgrado le temperature arrivassero a battere la soglia dei -35°c: ho fatto gli esami del sangue dopo un anno di permanenza e il medico ha protestato col laboratorio sostenendo avessero inviato sangue di tricheco.
Dovevo rifarmi da uno shock anafilattico: quando facevo ancora solo qualche rada apparizione sul suolo delle ex Repubbliche Socialiste Sovietiche (CCCP), mi avevano prenotato una cella in un monastero ortodosso (non è una battuta, cazzo), convinti che una morigerazione dei costumi e una atmosfera di pentimento potessero frustrare la mia stronzaggine professionale.
Un pope barbuto alto due metri e con delle spalle da wrestler si sincerava che tutti gli ospiti si raccogliessero per qualche secondo in preghiera di fronte alle 3.274 diverse icone che tappezzavano un corridoio. La prima mattina chiedo dove si faccia colazione e mi indicano il refettorio. Bene, ora, labora et abbuffa era il motto dei frati come lo ricordo da qualche giro per le abbazie che mio padre mi faceva fare le domeniche mattina: entrambi più atei che agnostici, trovavamo comunque un ambiente divertente e soprattutto, mattutini entrambi, i frati erano gli unici cui potessimo rompere i coglioni alle 6:30am.
Mi siedo nel “refettorio” del monastero russo, chiedendomi se, non fluente in russo, avessi colto le direzioni per la camera mortuaria, visto l’arredo minimalista.
Sul tavolo un coltello, un cucchiaio e una forchetta, tutti di plastica. Una tovaglia il cui concetto di bianco è simile alla fedina penale di un mafioso. Un cameriere che sembrava l’addetto all’estrema unzione. Ordino un’omelette: si, lo so, è un triplice azzardo igienico, ma avevo fame. Già quando mi si chiede se avessi voluto il pane avrei dovuto insospettirmi. Fortunatamente colgo la sfumatura tra acqua (“voda”) e vodka (“vodka”) e non mi lascio trarre in inganno da “moloka”, sapendo che dovrebbe essere latte. Beh, una certa propensione con le lingue straniere c’è, inutile negarlo.
L’arrivo di ciò che era definito “omelette” ha avuto lo stesso effetto di vedere scomparire il PCI: incredulità e sbalordimento che poi hanno lasciato spazio alla più profonda commozione. Una massa dinamica informe totalmente bianca e spugnosa, affiancata da una fetta di pan carrè su cui dovevi praticare una rianimazione per considerala ancora in vita. Un bicchiere d’acqua. Chiedo al becchino che mi serve il piatto (di plastica), se sia contrario alle prescrizioni del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli usare anche il tuorlo (il “rosso”, neh) delle uova o, nell’ondata restauratrice oligarchica seguita al collasso del socialismo, il colore “rosso” fosse proibito e bandito.
Il suo sense of humor è tale che chiama il fratello maggiore del pope di guardia la sera, soprannominato “Hummer” non perché picchia cazzotti come un martello ma perché è grosso come il famoso e inutile SUV americano che occupa 3 corsie in larghezza. Rinuncio al confronto dielettico e con tristezza attacco lo schifo, filandomela appena si distraggono e andando in pellegrinaggio da Stabucks.
Ogni tanto, lo riconosco, esagero.
In South Africa, in vacanza, la Cami mi si era seduta a fianco: penso fossimo a Durban (che non è dove hanno prodotto i primi dentifrici “Durbans” che quelli vecchi come me si ricordano nei caroselli come antagonisti alla Pasta Del Capitano, che, detto per inciso, faceva veramente schifo). Da brava adolescente in pieno sonno post-sveglia criminale all’alba del padre, si era raccattata una tazza di cereali e pigramente puciava il cucchiaio dopo aver aggiunto il latte.
Alla mia terza porzione di peperonata con masai mala di impala (spezzatino piccante tipico delle regioni centraficane, lascia un sapore in bocca che ti lavi i denti con un idrante anti-incendio dopo), ha pronunciato il fatidico “Papà fai veramente schifo” e ha cambiato tavolo scuotendo la testa.
Un paio di immagini appropriate per oggi. La seconda è il mio breakfast di stamani (con un ritocco black and white per far rodere il Nunzio), la prima una leggerissima colazione fatta nel sud della New Zealand, appena sceso dal camper dove si dormiva. Era l’Agosto del 2008 e aveva nevicato abbondantemente. Le altre foto di questo viaggio le trovate qui: http://www.vagnozzi.net/Pictures/P_Auckland/index.html
Il racconto mi ricorda qualcosa dei viaggi fatti assieme, con sveglia alle 6,30 di mattina (tenuto conto che la stessa notte eravamo arrivati all’albergo all’1,30) per non perdere la “colazione” ed arrivare comunque sulla Kifisias prima delle 8,00 per aprire l’ufficio insieme alla signora delle pulizie e farci subito preparare un caffè freddo shakerato con biscottini….
Dunque, vediamo di dare un contesto più accurato …
1) si, giusto, eravamo ad Atene e siamo arrivati quasi alle 2 di mattina dopo aver bestemmiato sulla scala mobile rotta di quel cazzo di aeroporto e aver rischiato un incidente epocale in taxi.
2) per ottimizzare i tempi tu ti portavi al tavolo interi vassoi da portata. Solo dopo le proteste degli altri clienti hai interrotto al dodicesimo waffel la tua ingordigia
3) quello cui ti riferisci è il tristemente noto “cappuccino dei tre passi” che se, dopo averlo bavuto, eri a più di 4 metri di distanza dal cesso ti cacavi nelle braghe
4) la sera stessa siamo andati a cena a nord di kifisias e tu hai chiesto 42 volte il pane nelle 50 portate (erano letteralmente 50!) per fare la scarpetta ogni volta
5) la sera successiva abbiamo cenato da Diasimos al Piero. Tu mi hai confessato che non eri abituato a mangiare pesce. Abbiamo consumato (in due) 18 triglie fritte, 4 polipi alla griglia, 3 dentici, 4 orate, 2 kg di totani fritti e io poi ho saltato il dolce mentre tu ti sei sparato uno yogurt con miele e noci. Il gestore ci ha fatto clienti onorari del decennio.
era il 1998?
Bravo, vedo che la memoria non fa difetto. In effetti non ricordavo del tentato incidente in taxi nel viaggio dall’aeroporto all’albergo, tanto più che mi avevi fatto sedere nel posto a fianco del taxista perchè vicino a te sul sedile posteriore avrei occupato troppo posto.
Credo di aver rimosso l’episodio, ma siamo andati veramente vicino ad uno scontro memorabile quando il taxista ha provato a frenare, ma l’impianto frenante di 30 anni prima aveva ormai deciso di essere arrivato alla fine della sua vita.