Tempo di migrare, abbandono per un paio di settimane il paese delle sabbie, del petrolio, dei cammelli e degli zibedei grossi come meloni che mi faccio, per tornare al paesiello. Botta di vita, si va in ferie.

Ho rantolato l’ultima conference call questo pomeriggio con la stessa attenzione riservata ad un avocado mentre state preparando il guacamole, ho accuratamente compresso nel trolley il risultato dell’arte del Master (vedi post sul sarto, ma su questo argomento vi scrivo la prossima settimana) e, felice come uno struzzo che ha trovato un buco pulito, ho fatto check-in nell’aeroporto di Dubai per la 2.741a volta in vita mia.

Forte di una conoscenza millimetrica del mio percorso ho imboccato i tapis che portano verso il Terminal 1. Ovvio che ci sia chi si parcheggia alla rinfusa sul nastro e quando vedono sopraggiungere un bisonte pelato, tentano di spostare corpi e bagagli temendo di essere travolti.

Una ragazzotta, penso Somala, bloccava il passaggio con delle forme generosamente giunoniche e con un armamentario di bagagli al cui confronto la slitta di Babbo Natale è un trolley della Valextra. Si è voltata e, imbarazzata, mi ha sorriso, non capendo che fare.

Ho discretamente osservato “Carefull, the path is ending” (occhio che stai arrivando alla fine del percorso). Nessuna reazione. “Hey, watch your feet, there is a gap at the end“. Manco per il prepuzio di Giove. “Hey lady, you are going to fall down“.

L’ho saltata come Owens nella finale dei 400 ostacoli mentre rovinava a terra lei, il bagaglio i familiari, i 22 passeggeri che seguivano, 3 addetti al gate, l’omino delle pulizie e 2 energumeni locali sudatticci. Quando gli All Blacks fanno una mischia sembrano dei ragazzini dell’asilo a confronto di cosa ho visto. Ovvio mi sia fermato a soccorrere, eh?

Non ho mangiato da stamane, quando ho celebrato il Ramadan con un sandwich al salmone che ha messo in crisi l’esportazione dell’Alaska. Mi parcheggio nella lounge e vengo attratto da un chicken vindaloo, assaggiato l’ultima volta in un ristorante hurdu del Somerset. Ricordo si tratta di roba tosta e il cuoco indiano me lo conferma “really spicy, sir“. Odio il pollo ma verso un po’ della salsa sul riso.

Mahahadonhnha.

Comincio a parlare come un livornese per tentare di arieggiare la bocca, in preda al puro napalm. Mancava riuscissi a dire “Pisa merda” e poi potevo venir citato sul Vernacoliere come bestemmiatore doc. Tento dei gargarismi con la Cocacola ma l’effetto è come se mi lavassi i denti con una molotov.

Sento di essere paonazzo e quando lo chef si avvicina per ricevere i complimenti come se avesse pilotato l’Enola Gay (o come cazzo si chiamava quel bombardiere) su Hiroshima, gli riservo una delle mie migliori punte di sarcasmo.

Atterro a Doha, dove sono di casa nella lounge e ogni volta che arrivo mi chiedono preoccupati se ci sia Mr. Rudi con me. Da quando gli ha bevuto 12 Sassicaia, 32 doppi whisky, 112 Chablis lo temono peggio di Gengis Khan. Li rassicuro e ridendo mi dicono che, per il Ramadan, non servono alcolici e non posso farmi una birretta terapeutica che stavo aspettando da una settimana e che mi avrebbe conciliato il sonno.

Che dire, sfiga religiosa. Rimedio domani sera in montagna, no worries!

L’immagine di oggi? Le foglie che vedrò domani ….

It's been almost 50 years that I travel across the word (and the 7 seas), on business or vacation, but always carrying with me a Leica camera. I started keeping this kind of journal a while ago. Even if sometime I disappear for ages, I'm then coming back with semi-regular updates: publishing is a kind of mirroring of my state and emotions, and you need to take it as it is. All published photos are mine.

2 Comment on “Cahazzo qhahnto he pichhanthe

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