Sto camminando in una strada d’Africa: terra battuta, pezzi di asfalto dimenticati, sabbia, fango. Quasi mi vergogno delle infradito, visto sono l’unico che non procede a piedi nudi. Kaizad è il mio Caronte qui: un cespuglio di capelli contenuti a fatica da un cappellino a visiera tesa, e una parlata dove l’Inglese cede sempre più il passo allo Swahili, la sua lingua, e il pentagramma della sua intonazione aggiunge la ritmica che solo chi vive in questo continente può avere.

Malgrado il colore della mia pelle mi identifichi, solo, in una moltitudine, nessuno è spinto da curiosità: sono un lieve turbamento nel quotidiano della vita, ma nulla cui si debba prestare particolare attenzione. La Signora Tedesca a Telemetro mi ciondola nella borsa, più per ragioni climatiche che per altro: scatto con gli occhi più che con l’ottuturatore.

Seguo un flusso di bambini in divisa, le scuole mi hanno sempre affascinato, e chiedo a Kaizad se posso visitare le classi, senza disturbare le lezioni. “Sei fortunato mzungu” mi risponde, dopo che per qualche minuto si è assentato per cercare il preside, usando il termine che riconosce in Swahili l’uomo con la pelle di colore bianco, “siamo nella pausa delle lezioni, e quindi possiamo girare tra le classi”.

Sorpasso un gruppo di studenti che sta tagliando legna, per la cucina della mensa scolastica, e comincio a girare in un grande complesso, che serve dalle Primary alle Secondary Schools un bacino di quasi mille studenti, divisi tra una dozzina di professori. Le classi mi fanno tenerezza, con i vecchi banchi in legno sui quali anche io ho cominciato, in un paesino dell’Emilia, il mio percorso scolastico oltre 50 anni fa’. I “cartelloni didattici” sono dipinti sulle pareti, che spesso inglobano bottiglie per simulare il vetro-cemento in un intelligente recupero di qualsiasi cosa.

Mi piace vedere molte ragazze che frequentano: l’accesso delle donne alla scuola è la ricetta per vincere un’uguaglianza che spesso, nelle terre che frequento, è ignorata. Leggo sulle lavagne l’algebra, l’arabo, l’inglese.

Cammino e mi raggiunge un insegnate, e mi parla delle difficoltà, ma anche del sogno di un ragazzino che, da un villaggio vicino, ha cominciato ad apprendere, per poi saper studiare e oggi essere in grado di insegnare alla sua classe di 100 bambini.

Bella storia in Africa, e la Leica mi aiuta a raccontarla.

 

It's been almost 50 years that I travel across the word (and the 7 seas), on business or vacation, but always carrying with me a Leica camera. I started keeping this kind of journal a while ago. Even if sometime I disappear for ages, I'm then coming back with semi-regular updates: publishing is a kind of mirroring of my state and emotions, and you need to take it as it is. All published photos are mine.

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