Atterro a Riyadh, paese del Custode delle Due Moschee, aggiunge sempre la stampa locale, ortodossa anche sulle vedove e gli orfani della composizione tipografica (il modo di andare a capo, non una roba cruenta dove tutti i capifamiglia muoiono).
Esco sempre con apprensione dal finger che mi regala la visione del King Khaled Airport: se la coda del controllo passaporti arriva oltre la scalinata giro i tacchi e chiedo asilo politico in Sudan.
Le forche caudine oggi sono benevole e fuori mi aspetta l’autista con la solita utilitaria 5mila di cilindrata che fa molto “agenzia“. Ho rinunciato a chiedere che non mi mandino più il suv nero enorme (ritrovato anche stavolta) quando mi hanno chiesto se preferivo un hummer militare. A questo punto il suv mi sembra il male minore. Il traffico di Riyadh mi accoglie a braccia aperte.
Rimbalzo verso l’ufficio approfittando di una sosta tecnica in albergo per apportare qualche modifica al mio aspetto che passa da jeans lisi, polo stinta e strapazzata, giacca in pelle consumata a blazer nero-mafia e camicia bianca ma con cravatta rosso sgargiante con bottigliette di tabasco stampate sopra: ho una fama di rispettabilità da mantenere.
Mi commuovo trovando un “welcome kit” in camera e vedendo il gesto della bottiglia in ghiaccio (vedi foto), ma poi vengo riportato alla realtà: è succo d’uva rigidamente non fermentato. Saudi is a DRY Country.
Ricordo ancora quando, nel 2003, avevo passato qui 6 mesi quasi ininterrottamente e se lo ricorda anche quel pirla che avevo mandato al diavolo perchè continuava a chiamarmi il Mau D’Arabia, azzardando paragoni storici con il Lawrence. Comunque, alla terza settimana consecutiva che bevevo solo Saudi Champagne (succo di mela, menta e perrier) mi son lasciato tentare dalla birra analcolica che avevo nel frigobar.
“In fondo saprà di birra, solo con qualche punta meno marcata” mi ero detto, nel training autogeno di portare alle papille qualcosa di meno stucchevole dei succhi di frutta.
Non ho mai assaggiato il piscio di dromedario, ma posso garantirvi che è stata la cosa che mi è venuta in mente dopo aver assaggiato quella schifezza che solo un sacrilego puoò chiamare “birra” e averla svuotata con disprezzo nel cesso.
Stasera ho la connessione a internet che viene misurata in camel-byte (il volume di bytes trasportabili da un cammello) e non in mBps (mega byte per second): questo mi fa crashare il web-frontend del blog in continuazione, la pianto qui e mi vado a vedere i sette samurai in versione integrale, in hurdu, che trasmettono su “suicide-tv”.