Foto sotto, scattata sabato nel collegamento tra le stazioni metropolitane di City Hall ed Esplanade: forse quello che ti lascia più perplesso è il “Genova”, a S$14, “Shrimp, Avocado, Herb and Genovese Sauce“, ma l’intero set fa comunque riflettere sulla globalizzazione e sulla customizzazione della cucina nel contesto delle abitudini alimentari locali.
Dimenticando per un attimo sia la bellezza dei dettagli dei piatti esposti in cera (c’è un’arte incredibile nella capacità di realizzare riproduzioni così realistiche), sia anche il nostro italico innato autoctono senso della perfezione nella preparazione della pasta e degli spaghetti in particolare, vorrei tentare di stimolare una riflessione democratico-alimentare.
Spesso colgo scampoli conversazioni sui voli di rientro in Italia, dove il turista si lamenta dell’incapacità nei posti più ameni di servire decorosi piatti della nostra cucina, o addirittura celebra come spettacolare eccezione il posto/ristorante dove, per pura intercessione divina, son riusciti a cucinargli un piatto di spaghetti al dente.
Le culture e tradizioni, quando vengono esportate o importate, subiscono un progressivo adattamento al contesto locale, che, al pari dell’evoluzione Darwiniana, ci restituisce delle nuove specie: questo è vero anche nell’area culinaria.
La comparsa di “pollo tandoori alla milanese” (speziato, cotto nel forno, impanato e poi fritto in padella?), “noodles aglio olio e peperoncino” (per la spaghettata orientale di mezzanotte?), “sashimi di acciughe al wasabi” (che farle marinate gli faceva male?) sono una coerente dimostrazione di come anche noi sappiamo massacrare la tradizione a favore dell’adattamento al gusto locale.
Quindi, pur democraticamente accettando come un dato di fatto queste contaminazioni cultural-alimentari, continuo a perseguire la mia fede nel cibarmi sempre in linea con tradizioni e ingredienti locali: questo penso mi abbia fatto evitare in questi quasi 40 anni di vagabondaggio planetario, una serie di problemi con il cibo e con l’igiene alimentare.
Ho lavorato per 6 mesi in India e riuscivo a mettere su peso mentre mi destreggiavo tra i piatti dell’Andhra Pradesh e quelli del Jammu e del Kashmir: rammento di aver scatenato più volte i complimenti dello chef e l’applauso della brigata di cucina per il mio convinto sperimentalismo, e poi, diciamocelo, all’epoca cenavo alla grande con $10 o $15, mentre per lo street-food spendevo 0.50 centesimi. I miei colleghi americani, ortodossamente legati a bistecca e patate, si prendevano delle scoppolate intestinali che li vedevi scomparire per mezze settimane intere e infine riemergere sorseggiano tea al limone, dicendomi “I’ve been sick like a dog” …
Ecco, quei piatti sono tutt’altro che invitanti, oltre tutto.
E da queste parti ci si rizzano i capelli in testa a leggere genovese sauce con avocado e quell’altra roba lì 😦
In acciuga we trust!
Ma tu sei prevenuta! 🙂 🙂
Ah, guarda io partirei con le trenette in valigia 😉
Stasera sto mangiando in una sprta di griglieria japponese, con menu solo in jap e camerieri che parlano solo jap. Ho ordinato “huuuuifiiiyagggg”, “ghgtrffffeeezzzxxx” e “uuiuuoiuooppp”, ed è qui che m’è partito lo sputo più grosso ….
Io pansoti con il sugo di noci 😉
Vinci tu …
E ci credo…è dura battere i pansoti!
Sono d’accordo con te Maurizio però bisogna dire che la capacità di accettare una tradizione culinaria “altra” è difficile e non alla portata di tutti. Le resistenze che esistono in patria ad assaggiare un piatto regionale si amplificano all’estero dove si è alla continua ricerca di un posto che ricordi la patria.
Bisogna accettare che in posti diversi si mangiano cose diverse e godere di questa diversità come una fonte di esperienza e di crescita.
🙂
Il cibo è cultura, e non possiamo pretendere tutti lo sappiano e lo apprezzino. Devo anche aggiungere che i piatti che presenti nel tuo blog sono sempre fantastici e veramente gustosi …
Ti ringrazio. Detto da te che hai tanta esperienza vale doppio.
🙂