Non mi stanco di tornarci, e non mi stanco di scattare qualche immagine, cambiando soggetto e tecnica per far sentire che c’è sincera scoperta. Non mi stanco di credere che questa sia l’unica parte reale di Dubai, lontano dalle punte dei grattacieli di Downtown che celebrano l’altezza di sua maestà il Burji Khalifa. Lontano dai fasti modaioli della Marina e JBR. Lontano dalle distese di ville identiche e dai “workers camp” laggiù nell’interno del deserto.

Sono ad Al Sabkha, sul Creek e scendo a piedi lungo la zona di caricamento dei Dow che portano le merci in Iran, in Yemen e Somalia in un “commercio flessibile” che aggira embarghi ormai da decenni, celebrando il territorio franco che confina con le vecchie banche come se ci fosse totale continuità tra le casse e i mazzi di dollari che vengono scambiati.

Entro nella strada del Souq, aggirando le prime 3 alley tempestate da turisti cinesi, russi, e altro assortimento per entrare, a sinistra della moschea che reclama la preparazione al venerdì di preghiera, nel Souq dell’oro, abbagliante con il suo splendore appariscente nel gusto religioso indiano per questo metallo. La litania continua di chi mi propone “watches, rolex, polo, t-shirt, designer bags” non si ferma nemmeno quando in inglese, in arabo, in indi e urdu gli dico che vivo qui, anzi rilanciano con “no worries, you then special discount“.

Ma chi cazzo te le compra ancora i fakes?” chiedo a uno che mi pare mansueto e rassegnato dopo che ad occhio ha misurato le mie spalle e ha velocemente valutato che sono π-le sue (tre volte e passa più larghe per i digiuni di matematica):  “Lots of customers, I sell good quality fakes!” (“ho un sacco di clienti, visto che vendo patacche di alta qualità”) mi risponde convinto: un uomo che chiaramente ama il suo lavoro ed è un sostenitore di un liberismo commerciale che se ne fotta di diritti d’autore, marchi e proprietà intellettuale. Si fa anche fotografare con un Panerai a due piani tempestato da (falsi) diamanti che meriterebbe il Premio Trash e l’esposizione al MOMA di NY.

Da Banyas prendo il barcone che in una nuvola di suoi simili mi porta dalla parte opposta del Creek, dopo aver costeggiato il Tribunale e il Tempio di Shiva. Mi immergo nei tessuti con 60 negozi che mi propongono pashmina e kefiah dalle geometrie più inconsuete: rifiuto cordialmente e il primo che mi dice “my friend” stringendomi la mano me lo porto in passeggiata per 10 metri, a monito per gli altri che subito diventano dei perfetti estranei che si fanno i fattacci loro.

Riprendo il caronte che ti fa passare questo braccio di mare e al costo di un dihram respiro gasolio per un buon quarto d’ora, prima di arpionare la riva opposta con un abbordaggio al cui confronto Soldini parcheggia una petroliera quando gira in solitaria.

Foto? Mi sono ricongiunto carnalmente con la Signora Tedesca a Telemetro (la digitale, M 240), e con un Summilux che ti permette di fare quello che vuoi della luce: mi son limitato ad esporre con sensibilità dai 800 ai 1600 ISO, che sennò è troppo facile, e vi faccio sentire – attraverso un po’ di immagini – gli odori di mare, di fumo, di spezie, di sudore, di umanità …

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It's been almost 50 years that I travel across the word (and the 7 seas), on business or vacation, but always carrying with me a Leica camera. I started keeping this kind of journal a while ago. Even if sometime I disappear for ages, I'm then coming back with semi-regular updates: publishing is a kind of mirroring of my state and emotions, and you need to take it as it is. All published photos are mine.

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