Il 1881 fu un anno pesante per Kuala Lumpur: prima un’inondazione di tutta la valle e poi degli incendi avevano devastato la città, costruita quasi esclusivamente in legno con tetti in paglia.
Frank Swettenham, il Governatore Britannico di Selangor, con il senso pratico che contraddistingue i sudditi di sua Maestà, ordinò che la città fosse ricostruita in mattoni, per garantire la comunità futura da accidenti simili. Fu Kapitan Yap Ah Loy, il “sindaco” locale della città, con il senso commerciale che contraddistingue i Malesi, che decise di acquistare una vasta area argillosa ai margini della città, impiantando una fabbrica di mattoni (“bricks“), per garantire un cospicuo suo personale arricchimento, aiutato anche dal fatto che l’altissima percentuale di argilla conferiva al prodotto un indubbio marchio di qualità.
Brickfields divenne anche il deposito della Keretapi Tanah Melayu (KTM) (Malayan Railway), attirando un alto numero di lavoratori Indiani, cominciando a denotare una maggioranza etnica dell’area, che ancora oggi ondeggia tra eccellenti (ed economici) ristoranti e sari svolazzanti.
La parte interessante, e divertente anche da fotografare, si estende per poche centinaia di metri, il resto è stato fagocitato da una globalizzazione asiatica nella quale si identifica solo l’ingrediente principale in un melting pot etnico nel quale ormai i DNA sono frullati più delle mitiche bevande di Viel nella fine degli anni ’70.
Per i lettori architetti, segnalo lo stile costruttivo del condominio “quartoggiaresco, ma virato in lilla” sulla Japan Tun Sambanthan (ma non giurerei si scriva proprio così) che, con una base tecno-hindi sparata a 5mila watt dal negozio di video sul lato opposto della strada, potrebbe essere la futura ambientazione di gruppi in un mix tra Imagine Dragons e PSY.
Foto? Ovvio, manco a chiederlo, Brickfields …