“Dai Beria, andiamo a fare due passi, ho bisogno di pensare” dico al mio cane e lei, con l’assoluta fedeltà che si conviene a un quadrupede vetro-comunista, mi si accoda mentre usciamo di casa. Che poi dire che lei “si accoda” a ma è un filo un ossimoro perché tra i due lo scodinzolatore non sono certo io.

“Ho letto sul giornale che Morandi ha ricevuto una valanga di insulti in risposta ad un suo appello alla fratellanza nei confronti di quei poveri disperati che, in fuga da guerre e carestie attraversano un pezzo di mediterraneo trasportati da moderni schiavisti, e spesso ci muoiono.”

“Già lo sciacallaggio di qualche squallido politico mi ha un filo disgustato, lo stesso che poi che arriva a Livorno a prendersi i pomodori in faccia ma – non contento – si fa fotografare mentre entra in un campo nomadi con una ruspa, (e la Cami mi segnala che purtroppo ha anche un seguito preoccupante), ma qui siamo veramente in un caso di becera follia collettiva di razzismo e asettica crudeltà che merita due sberle più che lo sdegno.”

Beria ruota il muso per mantenere in assetto quelle due gran padelle che si ritrova come orecchie e non si perde una parola.

“Cazzo Beria, io li ho visti i posti da dove questa gente fugge, e li ho visti quando erano relativamente calmi e la gente non scappava da lì: guerre e carestie, malattie e violenza. Se minimo riesci a camminare, scappi via. Vendi qualsiasi cosa per poterti permettere un passaggio dai trafficanti di persone, perché l’alternativa è morire. E noi ci arrocchiamo nel nostro gran bel vivere sulla base di un diritto di nascita che ci ha conferito una cittadinanza, dimenticando quando noi stessi fuggivamo dalla fame?”

“Mi ricorda il fenomeno dei ‘Boat People’, durante la guerra in Indocina”, e Beria, ghiotta di storia più che di croccantini-light che la sua età le sta imponendo, si siede e mi guarda aspettando il seguito del racconto.

Le guerre degli anni ’70 in Indocina hanno creato una massiva ondata di profughi che tentavano con ogni mezzo di abbandonare le aree, soprattutto fuggendo dal Viet Nam via mare e tentando di raggiungere le coste della Malaysia, Thailand, Singapore, Philippines ma addirittura arrivando anche a Hong Kong (all’epoca ancora colonia britannica). Venivano chiamati “boat people”, la “gente delle barche” e poi il termine è stato sempre più usato per identificare i profughi Vietnamiti in generale.

Tra il 1978 e il 1979 un’ondata massiva di qualsiasi tipo di barca lasciava le coste del Viet Nam: si calcola che oltre 800mila persone abbiano affidato la loro vita a imbarcazioni che spesso erano gusci di noce stipati all’inverosimile e scommettevano sulla loro possibilità di sopravvivenza in un viaggio dove avversità naturali, pirateria e naufragi falciavano una percentuale elevatissima di profughi. Il calcolo delle probabilità che fai quando scappi da una guerra e da una morte che conosci ti porta a provarci comunque.

La crisi umanitaria stava portando i paesi dell’area a rifiutare questa marea umana di disperati.

Nel 1979 una conferenza internazionale sanciva un impegno comune: da un lato il Viet Nam si impegnava a limitare e regolamentare il flusso di rifugiati, dall’altro i paesi verso i quali il flusso era diretto organizzavano campi di accoglienza, finanziati dalla comunità internazionale. Dai campi la stragrande maggioranza venne aiutata a proseguire verso destinazioni quali gli Stati Uniti (che ne accolsero quasi il 50%), Francia, UK, Canada, Australia, Germania. Alcuni vennero anche rimpatriati.

Dobbiamo muoverci in questa direzione anche per i “nostri” boat people, considerando che la Libya, paese dal quale partono la maggior parte delle imbarcazioni, è totalmente fuori controllo: bisogna costruire una alternativa in Tunisia o Algeria che spezzi il mercato illegale, offrendo un trasporto sicuro. Come sempre il colpire l’interesse economico dei trafficanti è l’unico modo di vincerli.

Foto? Stiamo rientrando a casa e Beria guarda un filo confusa un Mau “reale” e uno “specchiato” …

beris

It's been almost 50 years that I travel across the word (and the 7 seas), on business or vacation, but always carrying with me a Leica camera. I started keeping this kind of journal a while ago. Even if sometime I disappear for ages, I'm then coming back with semi-regular updates: publishing is a kind of mirroring of my state and emotions, and you need to take it as it is. All published photos are mine.

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